PROSA
VENERDì 26 – SABATO 27 – DOMENICA 28 OTTOBRE 2018 – ore 21
Un viaggio nella vita di due persone, un raccontarsi fatto di attimi, di abitudini, di sorprese e di carezze.
assistente alla regia Cinzia Pietribiasi
musiche di Saverio Vita
costumi Francesca Tagliavini
produzione NoveTeatro
Cosa cresci a fare se poi muori?
“Mettere in scena” un flusso di coscienza. Allestire un mezzo secolo di vita sopra ad un palco spogliato di ogni orpello. Un uomo e una donna provano. Su di un palco di solito si prova prima di dare inizio ad uno spettacolo. Questa sera si prova un dialogo d’amore. Un amore che non c’è. Perché l’amore, quello della Bibbia e di Hollywood, non c’è. Si cercherà di dargli forma e corpo in tutti i modi. Frugando nella scatola nera dei ricordi, cercando di ridare colore ai sogni dell’infanzia, ripetendo in modo quasi meccanico i copioni di altre storie, di altri presunti amori. E ci si accorgerà che nel tragicomico gioco delle parti non si è stati che specchi l’uno per l’altra, sempre. Alla ricerca continua di conferme, di gratificazioni. Alla ricerca di un “noi” che potesse aiutarci a vivere, o anche solo a sopravvivere. Un “noi” che fosse un antidoto alla solitudine che ci attanaglia. Un “noi” che potesse aiutarci se non a superare, almeno a condividere il nostro non-senso individuale, che potesse permetterci di coniugare al tempo futuro la nostra esistenza.
Ma non c’è un “noi”. Non c’è mai stato davvero. L’amore non c’è. E forse non esiste nemmeno un’idea precisa di futuro. Si proverà quindi a risolvere tutto attraverso un salto nel vuoto che abbiamo dentro. Il vuoto c’è e può essere molto divertente. Specie se accompagnato da un Jack Daniels con poco ghiaccio. Dopo il vuoto si starà benissimo e tutti avranno quello che si meritano.
LUI: “Quando hai imparato ad odiarmi? Quali cazzo di aspettative avevi perché io ti potessi deludere? Ma deludere che cosa? Ci siamo stancati della stessa carne. E siamo noi che ci stanchiamo? Io non mi stancavo di aspettare di vederti passare in bici, tutte le mattine, dalla finestra del mio studio, quando tu facevi ragioneria e lasciavi la bici in fondo alla mia via. Stavo lì, dietro le tende, pensando al tuo seno e alla dolcezza del tuo ventre di cui avevo spiato ogni centimetro durante i cambi nei camerini dei piccoli teatri di provincia che frequentavamo in quegli anni. E fermo dietro a quelle tende mi passava ogni secondo come se fosse un intero videoclip, dove io ballavo vestito come un depeche mode. E tu arrivavi e mi stringevi come se il domani fosse già esploso in una galassia lontana. Non ti distrarre: di cosa siamo stanchi?”
LEI: “Avresti potuto offrirmi una cena, anche solo una volta. Scegliere tu un posto romantico, portarmici a sorpresa, e fare quelle cose da galantuomini d’altri tempi, tipo versarmi il vino e andare a pagare il conto, fingendo di andare in bagno. Se fosse stata un’abitudine l’avrei trovata grottesca, ma una volta, una volta sola, mi avrebbe fatto stare bene. Avresti potuto venire a farmi una carezza, le notti in cui ti accorgevi che non ero a letto e stavo piangendo sul divano. E se non avevi voglia di alzarti, chiamarmi dalla camera, chiedermi “Che cosa c’è?”. Io invece rimanevo sola e piangevo piano convinta che dormissi. Tu però non dormivi e aspettavi il giorno successivo, per chiedermi che cosa mi fosse successo. Avresti potuto raccontarmi qualcosa di te, della tua vita, che non fosse soltanto ciò che era già davanti ai miei occhi. Ad esempio, raccontarmi di lei che era il tuo solo vero amore”